MOBBING
IL MOBBING E LE REGISTRAZIONI FONOGRAFICHE
Con la sentenza n. 10430 del 08 maggio 2007 la Corte di Cassazione ha statuito che il mobbing può essere provato anche mediante registrazioni audio. Il caso su cui si è pronunciata la Corte riguarda, nello specifico, la vicenda di una dipendente (D. N.) che, essendo stata vittima di ingiurie e molestie sul luogo di lavoro, era stata costretta a dimettersi chiedendo il risarcimento del danno subito. In giudizio, la ricorrente aveva prodotto come prova una cassetta registrata. La persona (P. L.) accusata di aver assunto tali atteggiamenti vessatori, non è stata sottoposta ad interrogatorio formale in quanto non rivestiva la carica di legale rappresentante della società; inoltre, avendo la società resistente contestato l´esistenza delle asserite conversazioni e della loro conformità ai fatti, il giudice di primo grado ha ritenuto inammissibile, ai sensi dell´art. 2712 c.c., la consulenza tecnica d´ufficio richiesta e volta alla trascrizione del nastro magnetico prodotto. L´art. 2712 c.c., infatti, prevede: “Le riproduzioni (cod. proc. Civ. 261) fotografiche o cinematografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale vengono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”. La ricorrente ha impugnato la sentenza di primo grado davanti alla Corte d´Appello di Firenze che, capovolgendo la pronuncia del Giudice di prime cure, ha autorizzato la consulenza tecnica affinché fosse possibile valutare gli elementi probatori desumibili dalle registrazioni fonografiche effettuate dalla D. N., in quanto il disconoscimento della conformità ai fatti rappresentati non impedisce al giudice di trarre in via presuntiva argomenti di giudizio anche dalle riproduzioni meccaniche, ove sorrette da “elementi gravi, precisi e concordanti” (Corte d´Appello di Firenze, sent. n. 213 del 2004). In sostanza la Corte d´Appello ha ritenuto ammissibile la consulenza tecnica finalizzata a valutare gli elementi probatori desumibili dalle registrazioni effettuate dalla ricorrente. Eseguita la perizia è, infatti, emerso un clima di “particolare ostilità” del Sig. P.L. nei confronti della ricorrente, mostrato - nello specifico - al momento della richiesta di ferie avanzata dalla lavoratrice. La Corte, sulla base di una così palese rimostranza del P.L., ha conseguentemente ritenuto giustificate sotto l´aspetto psicologico le dimissioni anticipate della ricorrente, liquidando il risarcimento del danno dalla stessa patito in € 8.367,29 pari alle retribuzioni che sarebbero maturate fino alla scadenza del contratto a termine, qualora la dipendente non fosse stata costretta a dimettersi. La società proponeva ricorso in Cassazione deducendo la falsa applicazione degli artt. 2712 c.c., 116 c.p.c., 2729 c.c. e sostenendo che, secondo quanto disposto dell´art. 2112 c.c., la Corte d´Appello di Firenze non avrebbe dovuto consentire la trascrizione del nastro magnetico perché disconosciuto in primo grado. La D. N. resisteva con controricorso contestando tutto quanto ex adverso argomentato. La decisione della Corte di secondo grado è stata confermata dalla Corte di Cassazione la quale ha condiviso le statuizioni del giudice d´appello ritenendole: “non in contrasto con l´art. 2712 c.c., giacchè la contestazione della società non ha riguardato il fatto della registrazione ma le sue risultanze, valutate, come già detto, dallo stesso giudice in base ad elementi presuntivi ex art. 2729 c.c.”. A sostegno di tale affermazione la Cassazione ha, poi, citato una sentenza emessa dalla stessa Corte di legittimità e riguardante le riproduzioni meccaniche, secondo la quale: “il disconoscimento, che fa perdere alle riproduzioni meccaniche la loro qualità di prova e va distinto dal mancato riconoscimento – diretto o indiretto – che non esclude il libero apprezzamento da parte del giudice delle riproduzioni legittimamente acquisite, deve essere chiaro e circostanziato ed esplicito con allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. n. 8998 del 2001).”. Secondo la Suprema Corte, dunque, la mera dichiarazione con la quale si disconosce una riproduzione meccanica, non è sufficiente a far perdere alla stessa la qualità di prova essendo, altresì, necessaria la produzione di elementi che dimostrino – a conferma e a sostegno del disconoscimento – l´effettiva divergenza e/o difformità tra ciò che si sostiene e ciò che risulta dalle riproduzioni. Nel caso di specie, al di là del disconoscimento verbale del P.L., non è stato prodotto alcunché che potesse, in qualche modo, attestare e/o confermare quanto contestato. Pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il disconoscimento del P.L. fosse generico e che da tale genericità derivasse la possibilità per il Giudicante di un “libero apprezzamento degli anzidetti elementi presuntivi ex art. 2729 Cod. Civ.”. Nella sostanza, dunque, si è affermato che la statuizione del Giudice d’appello non fosse in contrasto con l’art. 2712 c.c. e che, più in generale, il Giudice possa legittimamente formare il proprio convincimento sulla base delle registrazioni audio qualora da queste emergano elementi utili a formare un giudizio e/o alla ricostruzione dei fatti di causa. Di rimando, il lavoratore, vittima di comportamenti vessatori, legittimamente può avvalersi di registrazioni audio - se contenenti “elementi gravi, precisi e concordanti” - per dimostrare il mobbing. Con il secondo motivo di ricorso la società lamentava la violazione e falsa applicazione dell´art. 2119 c.c., nonché degli artt. 1453 e ss. c.c. sostenendo che il Giudice di secondo grado avesse erroneamente liquidato il danno nella misura delle retribuzioni maturande fino alla scadenza del contratto, infatti, secondo il P.L., non avendo la lavoratrice dato prova di aver subito un diverso e maggior danno, l´unica somma liquidabile alla D. N. fosse l´indennità di mancato preavviso ex art. 2119 c.c.. La Corte di Cassazione ha ritenuto questo secondo motivo infondato considerando che, nel caso di specie, non si trattava di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in relazione al quale è prevista l´indennità sostitutiva del preavviso, bensì di rapporto a termine. Pertanto, la Corte d´Appello di Firenze aveva correttamente configurato – e, conseguentemente, liquidato – il danno subito dalla D. N. nelle retribuzioni che la dipendente avrebbe potuto percepire fino alla scadenza del contratto qualora non fosse stata costretta a dimettersi. La sentenza in epigrafe fornisce senza dubbio al lavoratore un importante – legittimo – strumento cui potersi avvalere per dimostrare di essere stato vittima di un comportamento mobizzante. Tale comportamento si sostanzia in atteggiamenti a volte eclatanti, a volte subdoli ma non meno perversi che, reiterati nel tempo, finiscono con lo svilire la persona del lavoratore determinando nello stesso stati di ansia, turbamento e – non meno importante – il venir meno della serenità lavorativa. Queste azioni e/o condotte, intenzionalmente mirate a creare una pressione psicologica e morale sul lavoratore, devono essere adeguatamente dimostrate. E´ a questo punto che la pronuncia in epigrafe acquista ancor maggior pregio in considerazione del fatto che provare il mobbing (onere, ricordiamo, del lavoratore!), è tutt´altro che agevole. Non è sufficiente, infatti, la semplice accusa, al contrario, quest´ultima deve essere suffragata da valide prove documentali, come possono essere le certificazioni mediche, e/o dalle dichiarazioni rese dai testi, altrimenti il dipendente potrebbe rischiare il licenziamento, giustificato dal venir meno del rapporto di fiducia: “un´accusa non provata di mobbing giustifica la comminazione di un licenziamento per giusta causa per violazione dello stesso rapporto di fiducia lavoratore-datore di lavoro” e ancora: “ (...) pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche di omertà sempre presenti, o per altre ragioni, non è chi non veda che la mancata acquisizione della prova in questione, alle cause che hanno determinato la lesione dedotta e gli effetti che si asserisce essere derivati, impedisce al giudice l´accoglimento della domanda” (Cass. 8/01/2000, n. 143). E´ vero, dunque, che nel corso di un processo è difficile acquisire apprezzabili elementi di prova tali da riuscire a suffragare l´accusa di mobbing e da convincere il Giudice di aver effettivamente subito la vessatorietà da parte di un superiore e/o di un collega, ma ciò non deve scoraggiare chi sia vittima di mobbing a combatterlo. Oggi – considerata, altresì, la mancanza in Italia di una legge ad hoc che regoli e disciplini tale problematica – il rimedio più efficace e proficuo sarebbe quello di collaborare, di rompere il silenzio (denunciato dalla stessa sentenza su richiamata: “sacche di omertà”, Cass. 143/2000), di non aver paura di denunciare quanto accade nei luoghi di lavoro, spesso davanti ai nostri occhi, di reagire contro tali ostilità perché non deve restare impunito chi, infischiandosene della dignità della persona del lavoratore, continua a perpetrare così deplorevoli condotte.
Avv. Silvia Gelfusa
Avv. Ombretta Maria Di Loreto .